INTRODUZIONE
Alle 19,49 del 3 giugno 1963
la «finestra del Papa», nel palazzo vaticano, si illuminò
improvvisamente. Ma non si aperse, e il Papa non apparve. Non ci fu bisogno di
spiegare alla folla riunita in piazza San Pietro il significato di quella luce:
Papa Giovanni era morto.
Mentre da un altare eretto sui gradini della
basilica il card. Traglia diceva Ite Missa est Papa Giovanni chiudeva gli occhi
nel suo semplice letto di povero, circondato dai familiari e dai collaboratori
più intimi. Quella finestra illuminata, che da decenni aveva significato,
per Roma e per il mondo, che il Papa era vivo e stava lavorando, ora significava
che il Papa era morto. Per tutti i lunghi giorni dell'agonia era rimasta
buia.
La folla radunata nella piazza comprese, e le lacrime si mescolarono
alla preghiera. Era una folla composta di credenti e di non credenti, di
protestanti, di ebrei, di ortodossi, di agnostici. E non era il simbolo
dell'altra folla, milioni e milioni di uomini, che, in tutto il mondo, in quel
momento, stava scrutando sui teleschermi quella lontana finestra illuminata di
colpo, e attendendo dagli altoparlanti la notizia temuta. Tutti si sentivano in
qualche modo orfani, e tuttavia poche altre volte l'orfanezza umana era stata
tanto consolata. Ognuno, per lunghi giorni, aveva avuto quel moribondo in casa
propria; ora quel morto gli apparteneva come fosse uno della famiglia. L'agonia
e la morte dell'anziano figlio di contadini bergamaschi aveva aiutato gli uomini
a scoprirsi una sola famiglia. La luce di Papa Giovanni non s'era spenta, ma
accesa, nell'ora della morte.
Era una sera livida di primo giugno, il
giorno seguente la Pentecoste: milioni di uomini ricorderanno quella sera per
tutta la vita. Non era solo morto un Papa a Roma: era morto qualcuno a ciascuno,
nella propria casa. Nessuno aveva visto quali segni lo strazio della fine avesse
lasciato sul volto del Papa; nessuno aveva potuto violare l'intimità di
quell'agonia e di quella fine. L'immagine ultima di Papa Giovanni restava per
tutti quella che tutti ricordavano, lieta, anche se già segnata dal male,
quella che era apparsa alla finestra la vigilia dell'Ascensione, il 22 maggio
(«Dentro o fuori San Pietro si sta sempre bene», aveva detto) o a
mezzo giorno del 23. Era stato l'ultimo incontro con i fedeli; egli non aveva
avuto se non la forza di recitare il Regina coeli e benedire la folla.
Ora giaceva in pace. Quella
morte aveva svelato al mondo la paternità di Dio e la maternità
della Chiesa. Il prof. Gasbarrini, che lo assistette con i colleghi Mazzoni e
Valdoni, racconta quello che provò nell'istante in cui lo vide spirare:
«Tornai accanto al letto e gli presi una mano fra le mie mani. Già
da qualche attimo il battito cardiaco non si avvertiva più al polso. Mi
chinai sul suo cuore. Nell'istante stesso in cui, rialzando la testa, mormoravo
'è spirato', sotto, nella piazza, la funzione si chiudeva con le parole
Ite Missa est. Le udii chiare, distinte. Mi parvero simboliche. Un viatico
celeste all'anima di un Papa incomparabile. Avevo gli occhi pieni di pianto. In
quel momento qualcuno accese nella stanza una gran luce».
Papa
Giovanni sapeva da tempo d'essere gravemente ammalato. Qualche volta, per
rasserenare amici e fedeli, aveva cercato di non ammettere la gravità del
male che s'era acuito dall'autunno del 1962. I primi disturbi si erano
manifestati nel 1961, ed egli annotava, nel ritiro di novembre di quell'anno:
«Sento nel mio corpo l'inizio di un certo turbamento che deve essere
naturale in un vecchio. Lo sopporto in pace, anche se talvolta mi fa un po'
soffrire, e anche se temo un aggravamento. Non mi piace pensarci troppo; ma una
volta di più sono pronto a tutto».
Iniziando l'ottantaduesimo
anno della sua vita, 25 maggio 1962, aveva detto ai fedeli: «Iniziamo ora
il nostro ottantaduesimo anno. Lo porteremo a termine? Tutti i giorni sono buoni
per nascere, tutti i giorni sono buoni per morire». Fu sempre un malato
resistente e paziente nello stesso tempo, capace di tutta la sofferenza e di
tutta la speranza. Quando seppe che il mondo pregava per lui, capì che si
avvicinava l'ora estrema. Lo aveva sempre detto: «Se un Papa non è
più in grado di fare il Papa, è meglio che muoia». Volle
allora che la sua vita diventasse un'offerta: «Se Iddio vuole il sacrificio
della vita del Papa, che esso valga ad impetrare copiosi frutti sul Concilio
Ecumenico, sulla Chiesa, sull'umanità che aspira alla
pace».
Era pronto. Lo ripeteva spesso ai medici e agli intimi:
«Ho le valigie sempre pronte». Dalle 20 di venerdì 31 maggio
era entrato in un profondo assopimento. Non aveva nemmeno riconosciuto i
fratelli Zaverio, Giuseppe e Alfredo, e la sorella Assunta, giunti in aereo col
card. Montini. Al nipote, Don Giovanni Battista, giunto prima, aveva detto,
quasi scusandosi di essersi fatto trovare a letto: «Vedi, tu arrivi e io,
mi trovo a letto. I dottori dicano che soffro, di un male allo stomaco. Ma
speriamo che tutto si risolva per il meglio e che io possa tornare a dedicarmi
al Concilio e alla Chiesa».
La certezza che egli stava per morire
spinse il segretario particolare, monsignor Capovilla, a dirglielo chiaramente.
Chi era presente assicura che fu a quell'annuncio che Papa Giovanni ebbe uno dei
suoi ultimi luminosi sorrisi. Avvicinò subito il capo all'orecchio del
prof. Mazzoni, perché udisse bene, e gli disse: «La ringrazio molto
perché lei ha voluto usarmi una grande carità. Mi ha fatto
avvisare in tempo che sto andando incontro alla morte, e così io posso,
da questo momento, lasciare da parte finalmente tutti i pensieri della terra e
preoccuparmi soltanto della mia anima».
Nella stanza era accesa solo
una piccola lampada, protetta da un abat-jour. Il Papa respirava a fatica,
cercava affannosamente aria. Ogni tanto gli veniva somministrato l'ossigeno.
Tutti stavano in disparte, pregando in silenzio. Quando il Papa riconobbe per un
istante i fratelli, sorrise con dolcezza e mormorò: «Mi raccomando
di continuare sempre nella semplicità, nella fede, nella tradizione delle
vere famiglie cristiane». Erano sempre i valori della famiglia che gli
diventavano spontaneamente misura di tutti gli altri. Era un Papa che moriva -
uno dei più amati in tutta la storia della Chiesa - ma era anche un
patriarca umanissimo, legato alla terra dalla semplicità e dal realismo
cristiano della povera gente. Il gruppo dei fratelli, in un angolo della stanza,
rappresentava, per lui, la spiegazione di tutto ciò che egli era stato in
grado di compiere, nella sua lunga vita, per il bene degli uomini. Anche
diventando Papa, non aveva dovuto mutare nulla in quelle che erano le norme da
lui ricevute fin da bambino nella casa di Sotto il Monte. Le aveva ritrasmesse
lui stesso ai fratelli e ai parenti tutti, nella lettera a Zaverio del 3
dicembre 1961: «La mia tranquillità personale che fa tanta
impressione al mondo è tutta qui. Stare nell'obbedienza come ho fatto, e
non desiderare o pregare di vivere di più, neanche di un giorno oltre il
tempo in cui l'angelo della morte mi verrà a chiamare... L'onore di un
Papa non è di arricchire i suoi parenti, ma solo di assisterli con
carità secondo i loro bisogni e le condizioni di ciascuno. Questo
è e resta uno dei titoli di onore più belli, più apprezzati
di Papa Giovanni e della sua famiglia Roncalli. Alla mia morte non mi
mancherà l'elogio che fece tanto onore alla santità di Pio X: nato
povero e morto povero».
Stava morendo da povero, nella stessa stanza
in cui era morto Pio X. Di liquido, di suo, personalmente, in quel momento, non
aveva che poco denaro. «Io ho tutto ed ho niente» ripeteva «sono
nato povero, sono vissuto povero, voglio morire povero». Dicono che un
giorno, a chi gli chiedeva come classificare i suoi congiunti, rispondeva
«Chiamateli i parenti del Papa e basta non occorre altro».
In
quella stanza, accanto a quel letto, non è possibile piangere. Chi non
può trattenersi dal farlo, esce e si sfoga nel silenzio dei corridoi.
Papa Giovanni, nei brevi attimi in cui riacquista la conoscenza, non parla che
di gioia. «La Pentecoste è giorno di gioia» dice «non
piangete». Ed ancora il motivo della povertà: «Voglio morire
senza sapere se ho qualche cosa di mio. La povertà mi ha spesso
imbarazzato, specialmente quando non mi riusciva di aiutare i miei che erano
poverissimi, o qualche confratello in difficoltà. Ma non me ne sono mai
lamentato».
Alla povertà ora ha potuto unire la sofferenza:
«Questo letto è un altare. L'altare vuole una vittima. Eccomi
pronto». Le ultime parole comprensibili, mormorate poco prima di spirare,
sono un'invocazione alla Madonna: Mater mea, fiducia mea. Poi, il
silenzio.
E mentre sembrava che non avesse più nulla da dare agli
uomini, il dono che egli stesso era per la Chiesa e per il mondo veniva scoperto
da tutti con sempre più profonda chiarezza. Nessuno, finché era
stato in vita, gli aveva potuto attribuire «miracoli». Ma tutti,
più o meno chiaramente, rendevano alla Chiesa la più efficace
testimonianza; Papa Giovanni era un miracolo lui stesso. Aveva realizzato
l'ultimo dei prodigi previsti da Cristo, nel dialogo coi discepoli di Giovanni
Battista, come prova dell'avvento del Regno di Dio sulla terra: «... e ai
poveri è annunziata la Buona Novella». Papa Giovanni non aveva
risuscitato i morti, o guarito ciechi, zoppi, sordi, muti. Aveva rivelato Dio a
tutti i «poveri» della terra: poveri di verità, di sicurezza,
di fede, di speranza, di pane, di amore. Tutti si erano sentiti meno poveri per
il solo fatto che era vivo questo «povero», questo «san Francesco
del secolo XX» che Dio aveva voluto collocare addirittura sulla cattedra di
san Pietro.
Papa Giovanni XXIII con Monsignor William Muedoon
Papa Giovanni XXIII
IL MONDO SI È SVEGLIATO
La folla, nella piazza, non si rassegnava ad
allontanarsi, quella sera. Crebbe per lunghe ore, a fiumi silenziosi. Guardavano
tutti a quella finestra, e non volevano andarsene. Nel riquadro di luce la
solida figura familiare non sarebbe più apparsa, né quella sera
né mai; eppure, nessuno avrebbe voluto allontanarsi. Qualche voce di
preghiera, il brusìo delle radioline a transistor da cui la gente
cominciava ad apprendere com'era morto il «suo» Papa, come
lassù si stava pregando accanto a lui. Sentiva quello che non vedeva, e
tutti erano in quella stanza, accanto a quel letto, addolorati, ma senza
disperazione, orfani ma senza amarezza molti anni prima, nel suo diario, Papa
Giovanni aveva scritto: «È bello lasciarsi macerare dal dolore e dalla
morte, al fine di risuscitare». Era la stessa sua certezza che restava
adesso in dono a quella folla immensa, della quale gran parte si poneva, per la
prima volta, o dopo molti anni, il problema di Dio, della vita e della morte,
della Chiesa e della verità. Era un groppo in gola, senza voce, ricco
soltanto di lacrime e di un'immensa gratitudine; solo col tempo, nel segreto
delle coscienze, avrebbe acquistato chiarezza e significato definitivo. Per
molti è da quella sera, nella piazza o davanti ai teleschermi, o in
ascolto della voce di una radiolina tascabile, che Dio è tornato ad
essere inevitabile, una realtà con cui è impossibile non fare i
conti, di cui non si può non accettare la sfida.
Papa Giovanni
sapeva d'essere amato. Aveva accettato il crescente entusiasmo del mondo con
inviolabile semplicità. Ne godeva, ma come se si trattasse di un altro.
Era un vero umile, e sapeva che avendo detto e fatto certe cose, il mondo non
poteva non rispondere con entusiasmo. Solo che ne attribuiva il merito a Dio; e
per questo era felice, come un fanciullo, di quanto accadeva.
Molti si
erano accorti della grandezza evangelica di questo Papa mentre era in vita. Le
sue parole e le sue opere, senza cessare d'essere semplici, erano ormai
imprevedibili. Ogni mattina ci si alzava con la certezza che lui aveva trovato
qualcosa di nuovo per avvicinare gli uomini, si leggeva che era stato in un
ospedale di bambini, in carcere fra i galeotti, nelle borgate più
popolari, al capezzale di vecchi amici sacerdoti. Una volta aveva ricevuto in
udienza uomini che rappresentavano il contrario di ciò che la Chiesa
insegna e difende; e tuttavia, eccetto pochi ostinati, tutti scoprivano che
ciò che egli faceva era fatto nel modo più giusto, cioè nel
modo più evangelico.
«Egli ha reso straordinarie le cose
semplici, e semplici le cose straordinarie»: è uno dei giudizi
più acuti che siano stati dati su Papa Giovanni. Ognuno subito dopo la
sua morte, ha cercato in se stesso le parole adatte per esprimere ciò che
provava. Non sempre c'è riuscito. Ma quello che è stato detto di
lui, da parte di credenti e di atei, significa che egli è stato davvero
«il mite che ha posseduto la terra».
Kennedy ne elogiò il
coraggio cristiano, lui che sapeva il prezzo del coraggio: «La sua
preoccupazione per lo spirito umano ha trasceso ogni confine di credenza e di
geografia. La sua saggezza, la sua carità, e la sua fermezza, sempre
improntate a dolcezza, hanno dato all'umanità un nuovo mandato di
coraggio per l'avvenire». E Giuseppe Ungaretti: «Il più umano
degli uomini del nostro tempo».
È stato detto che era «il Papa
che piace a tutti». Ma anche questo è vero solo fino ad un certo
punto. Sarebbe ingenuo crederlo. Chi segue con coerenza il Vangelo e vive
nell'imitazione di Cristo non potrà mai essere amato indistintamente da
tutti gli uomini.
Tutto questo era prevedibile. L'importante è che
Papa Giovanni sia entrato nel cuore soprattutto di due categorie di uomini: i
poveri e i cercatori della verità. Ai primi ha ricordato che «la
Chiesa è la Chiesa di tutti, ma soprattutto la Chiesa dei poveri»;
ai secondi ha rivelato - dopo secoli di distacco fra la Chiesa e il mondo della
cultura - che la verità è semplice e che esige semplicità
nell'essere presentata agli uomini che in essa cercano la salvezza.
Il suo
fascino non è derivato solo dal fatto che era di ceppo contadino, o che
era un uomo di grande devozione, o che era sempre in grado di accostare gli
uomini con una discreta vena di umorismo su se stesso e su gli altri: è
derivato da tutte queste cose fuse insieme, cioè dalla pienezza di
un'umanità che non ha disprezzato la cultura e non ha perso la
semplicità, da uno stile di rapporti che ha usato soprattutto la
diplomazia del buon senso e della comprensione
PERCHÉ TANTO AMORE
Perche'? È la domanda che ognuno continuerà
a porsi, ogni volta che lo penserà e lo ricorderà. Perché
ha potuto, in soltanto quattro anni e mezzo di pontificato, portare nella Chiesa
e nel mondo questa inarrestabile rivoluzione evangelica?
Quanto si è
scritto su Papa Giovanni! Eppure per quanto se ne scriva, gli uomini accettano
sempre d'affacciarsi sulla sua vita e sulla sua anima, sono sempre disposti da
capo a vivere, con lui, questa straordinaria, incredibile «avventura»
dell'incontro con Cristo nel tempo degli astronauti e delle atomiche. L'esempio
di santità di Papa Giovanni è il più adatto e il più
efficace a ripetere la lezione del Vangelo agli uomini dell'era tecnologica
questo «povero» è il più infallibile e persuasivo
maestro di spirito di una società che sta minacciando di spendere nella
ricerca del benessere tutte le proprie energie, e di fare del boom la sua unica
divinità.
Molto dipende certamente dal fatto che egli rimase sempre
un «puro di cuore» e «vide Dio» in ogni uomo ed in ogni
evento. La sua profonda, innocente «infanzia» di cuore spiega tante
cose. In ogni momento importante della vita, egli si è rifugiato in
ricordi d'infanzia, come a proteggersi istintivamente dalla pesantezza delle
responsabilità e ad attingervi la forza necessaria. La sera del 28
ottobre 1958, subito dopo l'elezione a Papa, mentre lo stavano rivestendo alla
meglio degli abiti bianchi che gli andavano stretti, non poté fare a meno
di pensare al lungo cammino percorso, al mistero della Provvidenza che lo aveva
portato fin lì, nella Cappella Sistina, a indossare quelle vesti candide,
un po' come un neonato che comincia la vita.
Al fedele segretario che,
seguendo lo sguardo assorto dei suoi occhi sereni, gli domandava a cosa
pensasse, rispose: «Penso alla mia mamma, al mio papà, alla mia casa
di Sotto il Monte». L'infanzia restava la sua forza e il suo segreto. Uno
scrittore cattolico ha detto che Hitler non sarebbe stato quello che fu se non
avesse tradito il fanciullo che era stato. Di Papa Giovanni si può dire
il contrario: che ha potuto essere, fino a ottantadue anni, quello che è
stato, appunto perché non ha mai tradito il fanciullo che era. Le
più limpide, serene, argute intuizioni del suo cuore sgorgavano appunto
da quella pienezza infantile che in lui non s'inaridì mai né mai
s'offuscò. Egli lo sapeva bene. Non si trattava soltanto di un dono che
aveva ricevuto; era anche una ricchezza interiore che aveva sempre difeso,
aggiungendovi la sapienza e la realistica esperienza degli anni.
Il 4
maggio 1963, nell'udienza pubblica in San Pietro, disse ai fedeli:
«Raccontano che quando si diventa vecchi e stravecchi si ritorna un po'
fanciulli. Che bello diventare fanciulli! Se non si è tali, se non si
possiede questa semplicità, è più difficile entrare nel
Regno dei cieli». Un senso dell'infanzia che in lui non è mai stato
astratto; ha sentito, fra l'altro, sempre vivo il bisogno della tenerezza, di
esprimerla e diffonderla, specialmente a contatto coi piccoli. Non ha saputo
nascondere le lacrime - lui che pure aveva il dono di un pronto controllo di
sé - di fronte alla piccola leucemica Katerine Hudson, alla quale, dopo
un lungo colloquio, facendosi fanciullo accanto a lei, si rivolgeva implorando:
«Prega per me, figlia mia».
L'11 ottobre 1962 resterà uno
dei giorni più memorabili nella storia della Chiesa. Papa Giovanni aveva
solennemente aperto il Concilio Vaticano II, e aveva tenuto un discorso
inaugurale in cui la linea del Concilio era già chiaramente anticipata.
Eppure, per la povera e semplice gente che la sera si riunì in piazza San
Pietro per aver la benedizione del Papa e ringraziarlo di quel dono fatto alla
Chiesa e al mondo, il momento più cristiano e commovente di quella
indimenticabile giornata fu quando il Papa, stanchissimo, disfatto dalla fatica,
ma raggiante di felicità, disse, con voce salda, appena venata da un
tremito di tenerezza: «Tornate a casa, figlioli, è tardi... Tornando
a casa troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: questa
è la carezza del Papa... Ed ora attendete alla benedizione che vi
dò ed anche alla buona notte che mi permetto di
augurarvi».
Tutti ricordano quelle parole: era nel segno dell'infanzia
che, alla fine di una delle sue grandi giornate, la Chiesa si offriva in dono a
tutta l'umanità. Il Papa non dimenticò di notare, con un tratto
d'infantile poesia, che persino la luna sembrava, quella sera, essere spuntata
prima nel cielo d'ottobre per non mancare a quel meraviglioso appuntamento
cristiano. Dalla piazza, scesa già la notte, saliva verso la finestra la
luce dorata di migliaia e migliaia di fiaccole agitate dai fedeli, che
rinnovavano l'entusiasmo dei cristiani di Efeso, quando, in un'altro dei
più Famosi Concili della Chiesa, era stata proclamata la maternità
divina della Vergine. Papa Giovanni guardava quel mare di fuoco, udiva quella
festosa litania di canti e di preghiere, e forse, in quel momento, proprio
perché la terra gli appariva tutta in festa, pensava soprattutto al
cielo. Forse gli tornavano in mente le tappe della sua lunga, faticosa ma
lietissima vita, consumata nell'obbedienza, benedetta nella pace dello spirito
che raramente aveva perduto la sua tranquillità. Ora tutto era chiaro.
Non restava che la grande, lenta, preziosa sofferenza con cui sigillare una vita
che era stata accesa dalla Provvidenza come «una fiaccola sul
candelabro» proprio nella misura in cui egli si era studiato di vivere e
morire nascosto.
Il 25 novembre 1962 commentando il suo genetliaco agli
alunni del Collegio Urbano di Propagandi Fide, aveva concluso l'omelia con
parole che contenevano già il consapevole e totale distacco dalla terra:
«In terra tutto finisce. Tutto ricomincia in cielo».
Non poteva
però dimenticare gli incontri umani più diretti e spontanei,
quelli in cui s'era travasato con tenerezza e pietà, con spirito di
amicizia e d'arguzia, a seconda degli ambienti e degli interlocutori. Tutto gli
era tornato in mente, nelle lunghe ore dell'agonia. Erano quegli incontri ad
aver segnato di stanchezza e insieme di pace il suo cuore già avviato al
tramonto. Li aveva annotati nel diario, giorno per giorno: «I contatti con
le folle, le udienze, oh! quante consolazioni!». E altrove:
«Gli
ammalati, i carcerati, i poveri, i profughi...». L'«uomo buono e
pacifico», anche quando sapeva chiaramente di non essere stato compreso,
non si offendeva; soffriva soltanto per l'equivoco, ma la coscienza d'aver agito
per il meglio gli faceva sempre buona compagnia. Soprattutto dava sempre un
valore di imitazione alla propria sofferenza: «Non mi affliggo per quello
che s'è detto e scritto di me. È troppo poco se si confrontano con le
angosce di Gesù, Figlio di Dio, durante tutta la sua vita e in
croce».
Sapeva che qualcuno lo giudicava troppo ottimista. Una volta
aveva risposto direttamente a questa accusa, parlando nella chiesa di San
Basilio, il 31 marzo 1963: «Qualcuno afferma e scrive che il Papa è
troppo ottimista, non vede che il bene, prende tutte le cose dal lato del bene.
Ma sì, io sono ottimista perché non mi distacco dal Signore,
perché sto con lui. Gesù Cristo ha sempre insistito sui lati
positivi, ha diffuso il bene. Certo, nel mondo c'è il male, fiacchezza
morale, turbinio di sensazioni fortissime che distraggono, ma c'è anche
la grazia del Signore che suscita tante anime generose e buone. Voi siete qui a
rappresentarne il fiore, l'ultimo che colgo dal grande mazzo. Sì, vi
debbo dire che veramente c'è da benedire il Signore perché
è ancora nei cuori».
È certo che Papa Giovanni ha trovato
nell'incontro con il popolo la più immediata giustificazione del suo
stesso essere Papa. Se sul piano del magistero pontificio quella
necessità d'essere padre e maestro è rimasta accesa soprattutto
nelle due encicliche sui problemi del lavoro e della pace, il bisogno di
contatto umano, quotidiano, spicciolo, a tu per tu con la gente più
semplice, è stato il segno della sua esuberante e delicatissima
umanità. In meno di cinque anni di pontificato egli uscì dal
Vaticano centocinquanta volte. Può darsi soffrisse anche un po' di
oppressione a dover vivere ogni ora del giorno fra le mura più illustri
della terra, ma restavano anche quelle - e quelle più di altre - capaci
di isolare un uomo; ma certo lo portava a «fuggire» soprattutto il
desiderio del contatto diretto con la gente. Il Vescovo di Roma non riteneva
d'essere del tutto un buon vescovo se non cercava, il più spesso
possibile, di vedere in faccia le sue pecorelle. E Roma intuì subito
questo dono che le veniva da un uomo addestrato alla difficoltà di tutti
i contatti, alle prudenze di una lunga e ardua diplomazia, ma che era rimasto
per sempre, nel suo intimo, un grande, conviviale conversatore. Ciò che
si ricorda delle sue famose battute di fronte a uomini politici e diplomatici
sembra il massimo dell'arguzia, e in molti casi lo è; ma resta assai poco
al confronto con l'immediatezza, la spontaneità, la capacità
fulminea di conquistare il cuore delle folle più eterogenee.
Papa
Giovanni ha fatto, nella vita, il cammino inverso a quello che i più
fanno sulla via del potere. Più uno avanza su quella strada più,
inevitabilmente, perde la possibilità di restare in contatto con la
gente. Anche i più volenterosi capi, il più delle volte, finiscono
in un isolamento che a pochissimi resta possibile superare. E spesso si spiega
proprio con questo isolamento la crescente difficoltà di rendersi conto
delle cose come stanno, e delle decisioni più adatte da prendere. Tutti
gli «abusi d'autorità» - a tutti i livelli umani del potere -
cominciano a nascere dall'isolamento e dalla convinzione che si possa fare a
meno, poco o tanto, di quella stessa gente che si è chiamati a governare,
di cui comunque è necessario rispondere.
Papa Giovanni ha saputo
salvare l'autorità nel dialogo, e il dialogo nell'autorità. Ha
«tradotto» semplicemente, per tutte le categorie di uomini che ha
voluto incontrare, il concetto cristiano dell'autorità nel modo
più immediato e persuasivo. «Ho voluto mettere i miei occhi nei
vostri occhi» - disse ai detenuti di Regina Coeli. Gli occhi negli occhi:
ecco un modo evangelico di potersi dispensare persino dalle parole. Agli
Osservatori delle Chiese non cattoliche, nell'udienza concessa loro l'11 ottobre
1962, aveva detto: «Vogliate leggere nel mio cuore più che nelle mie
parole».
Più invecchiava, più desiderava uscire.
Portatore di serenità e di coraggio, trovò forse il proprio
simbolo in quel colombo che la Federazione Colombofila Italiana gli donò
nella Pasqua del 1963 con questa dedica: «A Sua Santità Giovanni
XXIII i colombieri romani affidano il loro colombo, emblema di pace, messaggio
di serenità e di pace fra tutti i popoli. Il colombo viaggiatore anche da
lontano torna sempre al proprio nido; così come gli uomini torneranno
sempre al divino Pastore».
Aveva il senso dell'uomo, della sua
personalità e della sua dignità. La Pacem in terris - uscita il
Giovedì Santo del 1963 - è la più alta celebrazione
cristiana, nei tempi moderni, dei diritti dell'uomo. Ma Papa Giovanni sapeva
scegliere sempre il modo più squisito per tradurre negli incontri di ogni
giorno la «purissima dottrina» della grande enciclica. Sapeva
rispettare la dignità dell'uomo, ma non in astratto, bensì nelle
più delicate sfumature della realtà. Anzi, i modi di quel rispetto
glieli suggeriva la stessa realtà, la sofferenza, il disagio, o la gioia
degli interlocutori. Com'era capace di scavalcare con un sorriso tutte le
prescrizioni del cerimoniale per far più in fretta una cosa, così
era pronto ad ogni sacrificio personale per non mettere a disagio chi gli stava
davanti.
La domenica 1° gennaio 1963 a Roma faceva un freddo
terribile, reso più pungente da una tramontana insopportabile. Come in
ogni giorno festivo una folla compatta attendeva in piazza San Pietro la
benedizione del Papa. I più battevano i denti e pestavano i piedi, per
vincere il freddo, ma nessuno voleva allontanarsi. C'era l'inevitabile
impazienza, in tutti, di chi affronta un disagio. Ma impaziente quella mattina
era Papa Giovanni. Non voleva anticipare l'appuntamento dell'Angelus, e d'altra
parte si rendeva conto del freddo che quella gente stava soffrendo. Aspettava il
puntuale colpo del cannone romano, per far aprire la finestra e benedire la
folla nella comune preghiera. Se la gente soffriva il freddo per lui,
perché lui non avrebbe dovuto soffrire un po' di freddo per la gente?
Quel giorno non parlò molto; dette soltanto una rapida benedizione. Ma
poi, prima di voltarsi e scomparire, non poté non far sentire quanto si
preoccupasse per loro. E lo fece con un linguaggio tutt'altro che astratto:
«E ora andate - disse - correte subito a casa. Oggi fa un freddo terribile.
E mettetevi abiti pesanti, se ci vogliamo rivedere la prossima
domenica».
Il 15 marzo, facendo il solenne ingresso a Venezia come
Patriarca, aveva detto ai veneziani di essere contento della propria «buona
salute», uno dei maggiori elementi di equilibrio, per lunghissimi anni,
della sua personalità. Alla salute tenne sempre, senza eccessi, senza
trascuratezze. Lo riteneva un dono di Dio come tutti gli altri, anzi uno dei
principali per poter esercitare nella maniera più adatta il proprio
ministero. Quando giunse il momento di sacrificare ed offrire anche la salute,
si sprofondò volontariamente nella sofferenza, e la offrì per
tutte le anime a cui credeva di non poter più giovare senza la salute
degli anni di maggiore vitalità.
Ma, finché gli fu possibile,
non volle neanche allarmare la gente sulle sue condizioni. Giunse persino a dire
un'affettuosa bugia per rasserenare i cuori dei fedeli, che già
cominciavano a trepidare per lui. Durante un discorso alla folla disse: «I
medici mi raccomandano di non affaticarmi ma io mi sento pieno di energia... Del
resto, come vedete, sono in perfetta salute; non che sia pronto a fare una corsa
o a partecipare a una gara, ma insomma...! Questo basterà perché
si creda ai medici quando dicono che il Papa ha avuto qualche piccolo
disturbetto, ma che adesso si vede bene che non gli manca niente, né
degli occhi, né della lingua, ne: delle orecchie, ne dalla parte del
cuore, che è il bene più bello e prezioso».
Quando
scadeva il tempo delle visite fuori del Vaticano o fuori Roma, diceva sempre:
«Adesso devo tornare a casa».
Il suo contatto immediato,
d'altronde, metteva a proprio agio qualunque ospite e visitatore. Egli,
spontaneamente, senza calcoli d'effetto, «inventava» ogni giorno il
modo più felice per dialogare con gli interlocutori più diversi.
Soprattutto non aveva segreti per nessuno. Piero Bargellini così racconta
l'impressione ricevuta da un colloquio con Papa Giovanni: «Papa Roncalli
non aveva segreti. Si apriva tutto, mostrandoci com'era, senza bisogno di celare
nulla, nemmeno quello che avrebbe potuto far diminuire agli occhi di qualche
schifiltoso la suprema dignità pontificale. Una volta mi disse, con
incantevole sincerità come la sera avanti si fosse divertito a vedere
qualche scena di una commedia di De Filippo data alla televisione. Che
ciò fosse avvenuto era comprensibile, ma che il Papa non ne facesse alcun
mistero, aveva qualcosa vorrei dire di sublime. Tutti abbiamo una specie di
pudore per certi atti o fatti della nostra giornata, non condannabili ma neppure
esemplari. Giovanni XXIII non conosceva certe convenienze, perché in lui
nulla era sconveniente. Diceva di essere stanco se era stanco, e si gettava a
sedere pesantemente sulla poltrona appoggiando le mani sui ginocchi. "Stiamo un
po' in confidenza", diceva distendendosi. E raccontava i suoi viaggi, i suoi
studi, i suoi incontri con Monsignor Ratti dell'Ambrosiana, quand'egli, giovane
prete, faceva le ricerche sulla visita pastorale di S. Carlo Borromeo. "Mi disse
che se io fossi riuscito a pubblicare quei documenti, i bergamaschi avrebbero
bagnato il becco ai milanesi". Egli allora aveva preso un bagai (ragazzo) e li
aveva fatti fotografare tutti con poca spesa. Ogni tanto un Monsignore si faceva
alla porta inginocchiandosi. Voleva dire che l'udienza si prolungava troppo.
Papa Giovanni faceva un gesto, non d'impazienza ma di calma, come per dire: ora
vengo. E continuava ad aprirsi senza ritegno, cioè senza nessuna
preoccupazione d'apparire diverso da quello che era. Siamo tra uomini, diceva,
come avesse voluto mettere a nudo le sue debolezze umane. Ma poi, proprio fra
uomini, confessava ciò che agli uomini sembra quasi incredibile: la sua
assoluta fedeltà al voto della purezza».
La salma di Papa Giovanni XXIII esposta in San Pietro
COSA FA IL PAPA?
Che cosa fa un Papa, che cosa faceva Papa Giovanni?
È una domanda che Loris Capovilla, il fedelissimo segretario particolare, si
è sentito rivolgere migliaia di volte. Ha sempre avuto la stessa
risposta, quella che dette la prima volta a Venezia, durante una conversazione
in occasione del primo anniversario dell'elezione di Papa Roncalli: «Fa il
Papa. S'alza quando in cielo ci sono ancora le stelle, per la preghiera e la
celebrazione della Messa; e dopo cinque ore e più di udienze, esamina
Pratiche e documenti, anche durante il pranzo. La sua paternità non
conosce fretta, ma la sua sollecitudine non ha sosta, ed egli è sempre
pronto nell'adempimento dei suoi doveri. Fa il Papa senza angoscia, ma non senza
sofferenza. Fa il Papa adempiendo il suo primo dovere: l'amore di Dio e del
prossimo; e nell'atmosfera dell'amore nasce la preghiera. Il Papa prega
più ore al giorno, e non ha fatto suo il motto di lasciare il Signore per
il Signore, cioè di trascurare la preghiera per la azione».
Si
è detto che Papa Giovanni amava stare a tavola. È vero, ma nel senso che
a tavola trovava il tono più giusto per stabilire un contatto di
umanità e d'immediatezza con gli ospiti. Si è anche detto che ci
teneva, qualche volta, a cucinare egli stesso. Non è vero.
Circolò, per molto tempo, l'aneddoto di lui che viene sorpreso, a Parigi,
con il grembiule a far la polenta per alcuni ospiti bergamaschi invitati il
giorno prima. Non è vero. Papa Giovanni era un «contadino» di
estrazione, ma un «principe» di sensibilità e di misura. Oltre
tutto, la vita che aveva dovuto condurre per lunghi anni in Paesi lontani
dall'Italia gli avrebbero tolto anche le abitudini più care ma esteriori
della sua vita agreste. Papa Giovanni non sapeva far la polenta, non sapeva
nemmeno sturare una bottiglia.
Questo non toglie che amasse la tavola, nel
senso che s'è detto, amava «spezzare il pane in
Fraternità» (era una sua locuzione preferita). Il Papa
accettò il duro protocollo della solitudine, infrangendola solo a Natale
ed in altre poche circostanze il primo anno di Pontificato. Gli piaceva ripetere
le battute attribuite a Pio X: «Rispetto le abitudini dei miei predecessori
tuttavia... Tuttavia non ho mai trovato nessun passo della Bibbia nel quale si
faccia obbligo... al Papa di mangiare da solo».
La sua mensa era
lieta, ma frugale. La mattina si limitava al caffellatte, un biscotto, un frutto
di stagione. A pranzo preferiva il minestrone bergamasco, che gli rinnovava il
«sapore» stesso dell'infanzia e della povertà. Ma Suor
Pierpaola gli cucinava spesso il risotto. Poi, carne, verdura, e frutta. Il
formaggio, in genere, appariva soltanto se c'erano ospiti. Nonostante amasse la
tavola, Papa Giovanni beveva sempre poco vino, e mai dolce. Il venerdì,
pesce, cercato dal cameriere in Borgo Pio. La sera, una cena
frugalissima.
La stessa semplicità regnava nella stanza da letto. Il
letto di mogano, tra due finestre, una scrivania, un piccolo armadio. Una
minuscola radio antiquata sul comodino, e un campanello per chiamare il
cameriere nelle ore notturne: ma Papa Giovanni non l'usò mai. Per nulla
si sarebbe permesso di «disturbare» qualcun'altro nel cuore della
notte.
Solo lo studio era ampio e luminoso, anche se con un'unica finestra,
la famosa «finestra del Papa», quella delle benedizioni domenicali.
Una macchina da scrivere portatile, bianca e con lo stemma pontificio, era dono
di una industria nota.
La «casa» - anche se la più
illustre della terra - egli l'amava con lo stesso attaccamento domestico con cui
amava la casa di Sotto il Monte. Se ne sentiva il peso, in certi momenti, si
salvava nelle fulminee «fughe» che tanto commovevano il popolo di
Roma. Per il resto, egli l'abitava con naturalezza e felicità. Non aveva
esitato, ad esempio, ad accogliervi tutte quelle che la gente giudica «le
buone cose di pessimo gusto» che avrebbero fatto torcere il naso ad un
esteta: le foto sbiadite dei familiari, quadri e ricordi in cui egli cercava
più la continuità della propria devozione che l'efficacia delle
soluzioni estetiche. Pur essendo uomo di gusto finissimo e di profonda cultura,
non esitava ad accettare e valorizzare, con umiltà, cose al di fuori di
ogni canone di bellezza classica.
Ad alcuni collaboratori che si
preoccupano di essere mandati a letto mentre il Papa restava a vegliare,
rispose: «Ma lo faccio proprio per poter lavorare in pace». Degli
uomini più semplici che poteva accostare si serviva spesso per misurare
anche la chiarezza dei propri discorsi. Non di rado leggeva a qualcuno che gli
viveva vicino il testo del discorso che avrebbe dovuto pronunziare l'indomani.
Domandava se tutto era chiaro. Se la risposta era affermativa, il Papa era
contento. «Quello che dico - soggiungeva - deve essere capito bene e
subito, da tutti, senza il minimo sforzo». Anche quando, nei momenti
più solenni, il testo del discorso ufficiale - magari in lingua latina -
non concedeva evasioni estese anche per i più semplici era difficile che
il Papa, pur nella compostissima solennità, non si lasciasse sfuggire uno
sguardo, un'inflessione di voce, un accento particolare, che erano come una mano
tesa all'improvviso a quella parte degli ascoltatori che avessero potuto
rischiare di stancarsi o di non capire.
Ha sempre avuto fede in Dio e
fiducia negli uomini. Ha sempre cercato, prima ancora d'essere Papa,
«più ciò che unisce che ciò che divide gli
uomini». Da Papa ne ha fatto il criterio e il programma della Chiesa
stessa. Ha dato del «tu» al mondo, ad ogni uomo, insomma. Gli ha
fissato gli occhi negli occhi, gli ha messo le mani nelle mani, per aiutarlo ed
aiutarsi a camminare insieme. Ed ha sempre accolto tutti, da Kennedy ad
Eishenower da Adjubei a Gronchi, dai bonzi ai protestanti, agli ortodossi,
credendo sinceramente che tutti potessero trarre dall'incontro umano con lui
coraggio e fiducia, sicuro di trarne lui stesso forza e consolazione
umana.
Anche per il Concilio ha avuto negli uomini fiducia sconfinata. Per
questo ha messo in guardia contro il pessimismo e la pigrizia. Ai laici, durante
un'udienza, disse: «Non siate come statue immobili in un museo». Agli
uomini del Concilio fece sapere un giorno quello che pensava della buona o della
cattiva volontà di tutti con una sola frase: «Il fallimento del
Concilio sarebbe il fallimento di Dio».
UN RAGAZZO INNOCENTE
Quando gli fu chiesto il permesso di lasciar
pubblicare, dopo la sua morte il suo diario spirituale, il Giornale dell'anima,
Papa Giovanni rilesse a lungo, con commozione e tenerezza, i quadernetti
ingialliti che lo contenevano, e di sé, della sua lunga vita operosa e
serena, non seppe dire che una parola a proposito del fanciullo che era stato, e
del sacerdote che era diventato: «Ero un buon ragazzo innocente, un po'
timido. Volevo amare Dio ad ogni costo e non pensavo ad altro che a farmi prete,
a servizio delle anime semplici, bisognose di cure pazienti e
solerti».
Oggi il mondo ha scoperto che il «ragazzo
innocente» e «un po' timido» ha restituito agli uomini il
sorriso, e il povero «prete contadino» di Sotto il Monte ha arricchito
di speranza l'umanità intera. La sua vita, che andremo rivivendo con lui,
spesso con le sue stesse parole, è soltanto la conferma soprattutto a una
delle sue ultime parole: «Pregate per me, perché amo la
vita».
Lezione di amore alla vita, e di amore alla
croce.